Mariano Silletti. Per una possibile revisione del magazzino semantico
Aniello Ertico
Presidente di Porta Cœli Foundation
Ancora, come nel passato e sin dai primi tentativi umani di decodificare la realtà, siamo alle prese con esercizi di ristrutturazione della conoscenza di noi stessi e del Mondo.
Inseguiamo la conoscenza che, tuttavia, in modalità equivoca, tende ad insinuarsi più come esito enciclopedico della nostra esperienza che come patrimonio dinamico della interpretazione individuale del vissuto e del percepito. Ed eccolo l’equivoco: l’esperienza è occasione per assumere informazione e conoscenza o forse è lo strumento per esperire esistenza? Possiamo cioè assumere l’oggetto della conoscenza come risorsa disponibile e pressoché illimitata o per conoscenza bisogna intendere il frutto dell’esperimento individuale ed irripetibile dell’individuo che, quindi, vivendo (e non solo sopravvivendo) partecipa alla produzione di una conoscenza di sé e del Mondo realizzando l’inedito?Quesiti antichi, irrisolti e quindi accantonati anche nei dibattiti più avanguardisti.Una occasione di recupero è offerta dalla produzione artistica di Mariano Silletti.
Per gradi: Serra Maggiore.
L’organizzazione dello spazio è nota, appare consueta per chi ha avuto esperienza di transito nelle aree rurali della riforma fondiaria. Noto lo spazio, regolato dal nostro magazzino semantico a cui, per accedere, non abbiamo bisogno di ricorrere alla dimensione temporale. Sappiamo che esiste perché c’è e poiché esiste ha anche un nome. Il famoso cigno nero che non può esistere finché non ne vedi uno nuotare nello stagno. Poco importa se l’hai visto a sei anni o a cinquanta, poco importa se quello stagno fosse vero o solo disegnato su qualche copertina di un libro di favole. L’hai visto ed esiste. Ed esiste anche Serra Maggiore, affatto dissimile da Borgo Taccone in agro di Irsina, tanto che per riconoscere l’uno dall’altro bisogna affidarsi all’inclinatura dei pendii circostanti. Noi che li abbiamo visti sappiamo che esistono e tanto basta. La nostra biblioteca semantica ci restituisce le informazioni di base: certezza dell’esistenza, posizione precisa del volume nello scaffale e collana di appartenenza. Ed è qui che recuperato il volume Serra Maggiore scopriamo un contenuto che non immaginavamo. La copertina che suggerisce una storia di sviluppo, una promessa di emancipazione e di dignità con tanto di prologo e proclami, sembra essere rubata da un volume altro, come quando volendo salvare una rilegatura di pregio decidi di sacrificare il dorso di un libro che non ti piace. Insomma, Serra Maggiore è salvato nella nostra conoscenza con la copertina di un libro che non abbiamo mai letto. Silletti ci mostra sinotticamente che lo spazio lo conosci se guardi cosa lo occupa ma soprattutto se ti accorgi di come lo spazio viene occupato e da cosa. L’asinello e la sua ombra occupano l’intera sola strada: una gara con l’ombra gettata dai fichi d’india; la postura delle donne e degli uomini è sempre assai verticale, con la testa in fierezza (come in uno stemma araldico) da contrappeso allo sguardo che, invece no, la fierezza pare averla smarrita nell’attesa. Gli oggetti, pure quelli abbandonati, sono in ordine: una specie di testimonianza comunque utile a gridare sottovoce una presenza… una qualche utilità che fu.
Non era questa la Serra Maggiore che conoscevamo. In quella immaginavamo la scenografia di un western d’altri tempi. La Serra Maggiore di Silletti è occupata invece in una vicenda epica, attuale quanto i jeans dell’adolescente che agita l’hula hoop in senso antiorario. Attuale come un gallo accudito e conteso, gallo o gatto, cibo o animale da compagnia. Vedete voi. Purché mettiate mano a quel che pensavate di sapere su Serra Maggiore.
Ludovicu.
Qui neppure lo spazio è noto. Ovvero, forse lo sarebbe se fosse presentato nelle condizioni ordinarie, scenografia di azioni ordinarie. Riconosceremmo l’insegna dell’Arma, il preciso punto del paese, intendo, se solo non fosse sempre notte d’inverno (quando la notte inizia nel pomeriggio). Potremmo anche dire che conosciamo un volto simile a quei volti rubati alle atmosfere, se solo quei volti non fossero espressioni più che visi. E no, quelle espressioni non le conosciamo e non sappiamo nulla di quella pioggia, esattamente quella che cade sul parabrezza di quell’auto militare. Perché anche la pioggia non è mai la stessa. Esiste una pioggia che accompagna gli eventi e che diventa parte integrante di essi. La pioggia durante la ricerca di uno scomparso è fango ancor prima di cadere a terra. Ludovicu è un reportage di una azione senza esito, né infausto né felice. Si presenta, intollerabile, come uno sforzo mai terminato, per i più incompiuto e invece intriso di intensità. Come quelle notti in cui si suda freddo sognando di correre nel fango e al risveglio, con la coda dell’occhio, si scorge della terra nel letto. Ludovicu è il racconto di ciò che accade mentre siamo intenti a far accadere qualcos’altro. Il mai progettato documentario di come esista sempre una possibile vicenda che ci convoca in un ruolo mentre pensavamo di recitarne altro. Ludovicu non è solo un progetto artistico, è il regalo che contiene la scatola, l’orologio nelle lancette, il lampione nella lampadina, l’arte nel lavoro.
Postille su Demikhov, prodotto da Porta Cœli Foudation con la curatela di Donato Faruolo, convoca i due progetti di Mariano Silletti in un unicum ancora inedito. Ne risulta una proposta perturbante, potenzialmente capace di fratturare patetiche certezze sulla semantica delle cose a noi note. Ossia, forse, su noi stessi.