Armento: lumini amnos
Aniello Ertico
Presidente di Porta Cœli Foundation
In un lumini amnos greco, tra le altre candele accese, faceva una luce diversa una vampa di due stoppi al confine della bordatura. Due candele quasi laterali che, del tutto distinte nel proprio alloggiamento dello scafo sabbiato, si erano di fatto unite solo nella fiamma. E la fiamma era assai più grande: non due fiamme unite ma una sola. Peraltro, le due candele sembravano consumarsi anche meno rapidamente delle altre cento; una fiamma vorace d’aria più che di cera. Perché si siano unite al vertice di fuoco proprio quelle due candele e non altre, pure assi vicine, mi ricorda la causa finale di matrice aristotelica: la venerazione dell’oggetto che diventa mero strumento. La venerazione di quel che l’oggetto, alla fine, opera.
Mi piace pensare che si siano unite per quello, immaginando l’esito di una maggiore e più autentica partecipazione non formale di chi le due candele le ha piantate nella sabbia. Una convergenza verso il medesimo miracolo chiesto attraverso l’atto votivo di accendere due luci distinte. Due candele per una ugual richiesta diventano una fiamma sola. Due candele accese per lo stesso miracolo magari si uniscono nella fiamma restando distinte. Chissà!!!
Ora, se così fosse, e non vedo perché mai non possa o non debba esserlo, significherebbe immaginare che ciascuna delle due candele abbia impotentemente dovuto abdicare alla luce propria in ragione di una fiamma altra. Merito della venerazione ossia della devozione.
E nell’arte? Cosa veneriamo con l’arte? Quale tributo operiamo maneggiando l’oggetto e la materia o allestendola con cura per poterla far fruire? Tutta la dinamica operosa che dalla produzione si sviluppa più o meno felicemente verso la pubblica fruizione sembra rispondere ad una ritualità millenaria di cui abbiamo forse smarrito lo scopo. Cosa stiamo chiedendo e a chi nel mentre piantiamo a parete opere come fossero candele da accendere?
Una suggestione arriva in soccorso presentando però subito il conto: produciamo opere affinché possano accendersi, le allestiamo affinché possano far luce ad altri, ne fruiamo per sperare in una fiamma nuova che non sia necessariamente quella dell’autore né la nostra ma una roba nuova. In tutto il processo si rinnova un rito che talvolta propone esiti strabilianti altre volte no, come nei miracoli che nessuno però smette di chiedere perché solo chi chiede alla fine ottiene. Il conto da pagare? Non c’è luce altra possibile se si immagina di proporre solo la luce propria.
Allora, abbiamo fatto di Armento un lumini amnos temporaneo in cui piantare candele, ovvero, opere d’arte. Opere insabbiate fuori circuito, quasi protette dal passante distratto, da scovare e rivelare perché prodotte nel solco della ritualità in uso a 9 artisti che nel rito sguazzano con percorsi propri, devozioni proprie, fiamme di nuovo e lungo corso. Vediamo cosa accade, qualcuna tra queste potrebbe unirsi in una sola fiamma o ardere per conto proprio. Loro sono l’oro che recuperiamo con un setaccio a maglia stretta per non rischiare di perdere frammenti di sostanze preziose, ossia rare. Che poi la preziosità è essenzialmente in ciò che ancora non abbiamo, di microscopico ed etereo o di sostanziale e materico. Prezioso è quel per cui siamo disposti a consumare il rito, il tempo e l’ego.
L’oro è prezioso se resta capace di esprimere la sua rarità. Come una mostra d’arte ad Armento, come una fiamma sola da candele diverse.