
Al monte della seta l’inspiegabile ragione del ricorso al mito
Aniello Ertico
Presidente di Porta Cœli Foundation
Ogni eroe è unico, nessun eroe è davvero nuovo nella sua parabola.
Sembra che l’eroismo, quello di cui ogni mito di qualunque tradizione e cultura si nutre, necessiti di una storia su cui potersi dispiegare secondo una ritualità pressoché costante, seppur connotata da scenografie e sceneggiature spesso differenti. Ogni cosa nasce da una storia e ogni storia si alimenta dalle gesta di un eroe ed alimenta l’eroe stesso. Nella storia accadono gli eventi che qualificano le gesta e le gesta producono gli eventi: un loop che a volerlo disegnare sarebbe ellittico ma che per potersi raccontare ha bisogno di un inizio e di una fine, quindi un segmento temporale utile, oltre il quale la storia finisce e l’eroe rimane per sempre. Ma chi è l’eroe?
Appare molto suggestivo e forse anche non del tutto pretenzioso valutare ogni essere venuto al mondo come un eroe: nasce (…e già questo non è un dato di poco rilievo se analizzato nella complessità dell’Universo e delle sue ancora ignote dinamiche), si svincola con non poca sofferenza dall’infanzia protetta e si autodetermina transitando per le fasi della maturità sperimentando il sé e l’altro da sé. Insomma, scrivendo la sua storia. Non è necessario essere nel mito per iscriversi al mito: il mito sembra essere una sorta di danza radicata profondamente nell’inconscio individuale e collettivo. Siamo tutti eroi allora? Si, perché siamo tutti iscritti al mito senza rendercene conto. Siamo tutti iscritti ad una storia che è cominciata e non si sa davvero come finirà, fino alla fine.
Tutta la sequenza, compiuta da ciascun individuo/eroe è sempre la stessa perché l’impresa da compiere è concettualmente la medesima, attuata nei secoli in miliardi di modalità differenti: scovare il celato, conseguire l’irraggiungibile, fare l’impossibile. Il mito è la dimensione che consente di aspirare al superamento delle esperienze umane già consegnate al corredo quotidiano. Poter tendere a tale impresa è caratteristica universale per nascita, aspirare al suo conseguimento ci rende eroi nel mito individuale, riuscire a conseguire l’impresa consegna la stessa al mito tramandabile. Si tratta, in questo caso, di aver davvero potuto sperimentare il superamento del sé dedicando la propria esistenza ad una causa più grande attraverso azioni che dipendono dal costume che si è indossato.
Ed è forse questa una utile postura analitica che giustifica l’immenso sforzo della pratica artistica nel corso dei secoli. L’inspiegabile fenomeno della dedizione, spesso frustrante, raramente appagante, di chi attraverso la pratica artistica svolge la sua storia personale iscrivendosi al mito possibile.
Sappiamo bene che le imprese nel mito sono essenzialmente di due tipi. La più frequente vede eroi impegnati nell’impresa fisica, quella che attraverso lo sforzo si traduce nel donarsi alla vita altrui, alla causa di giustizia salvifica, alla realizzazione di una modificazione strutturale del contesto che ospita la storia. L’altra tipologia ha connotazioni di natura “spirituale”, capace di imparare e condividere una soluzione, di rivelare, di andare altrove e saper tornare con una conoscenza decisiva per l’evoluzione. Andare e tornare, morire e tornare, sparire ma restare.
Sembra davvero che nessuno più dell’eroe artista si possa avvicinare ad una definizione corrente dell’eroe iscritto al mito del presente: lo sforzo di creatività si accompagna a quello fisico che sovente è necessario per generare l’opera. Allo stesso modo la stessa creatività è l’approdo possibile solo superando il noto e il confortevole, la prassi rassicurante e le certezze fragili. Una specie di andata e ritorno al sé, di assenza temporanea dagli esiti incerti. Esiste forse una necessaria ritualità di iniziazione nell’artista: abbandonare la propria condizione, arrivare incerto a fonti di senso ancora ignote e ritornare per poterle condividere.
Non sempre questi viaggi sono volontari. Talvolta sono mossi dall’intuito, come quando nel seguire una lepre nel bosco ci si imbatte nel regno degli elfi. Altre volte si è costretti, come quando inseguiti dal minaccioso mostro ci si tuffa nella ripida cascata oltre la quale si scorge un mondo incantato. Capita anche che il viaggio sia una scelta, come accade per chi si accorge, tempo per tempo, che per risposte nuove c’è la necessità di porsi domande nuove. Ecco, l’artista del mito è essenzialmente quello che ha cercato fuori di sé domande nuove senza necessariamente porsi come risolutore.
Assume una rilevanza certa, se così concepita, una mostra d’arte che convoca, intorno alla figura di Donato Linzalata, molteplici artisti iscritti al mito del loro tempo, ossia alla proposizione in chiave artistica di quesiti urgenti recuperati oltre la prassi, oltre il confort della mera ricerca di estetica, oltre la tentazione di garantirsi uno spazio di riconoscimento formale nell’alveo del “già detto”. Il fruitore non avrà funzione di “pubblico” ma di possibile risolutore dei molteplici quesiti recuperabili dalla lettura delle opere. Le valutazioni potranno dare esiti certamente contrastanti circa le possibili risposte, ma nessuno potrà mettere in discussione la solidità ontologica dei quesiti offerti.
Dopo tutto, chi come Prometeo va alla ricerca del fuoco per farne omaggio alla umanità, accetta la sofferenza per le ustioni che l’impresa produce. L’arte, come il fuoco, è un dono essenziale che si tramanda se esistono staffette tra eroi da iscrivere davvero al mito.
Donato Linzalata, come alcuni altri tra gli artisti convocati in questo convivio, hanno definitivamente lasciato il loro testimone particolarmente rovente. Gli altri continuano ad alimentare il mito, ossia l’indispensabile e salvifica certezza che non sia stato già detto tutto, demolendo l’idea che gli eroi non servano o, ancor peggio, che nessuno di noi possa sperare di evolvere quello che già è.