opera di Marcello Mantegazza

404.05 / Loro
Persistenze dell’oro nel contemporaneo

Donato Faruolo
Curatore della mostra 

Ogni definizione culturale di un’identità è un atto politico di definizione di un’alterità. Se la commissione dell’Eneide è chiaramente considerata un limpido atto di ricollocazione della Roma imperiale nella continuità della nobiltà greca, meno limpidi ci appaiono, nella loro dimensione politica, episodi come la costruzione culturale del Rinascimento o della Controriforma, a cui generalmente partecipiamo più organicamente.

L’Italia ha basato sul Rinascimento – e sulla conseguente concezione dell’alterità medievale – una grande parte della propria epopea nazionale: il Neorinascimento è lo stile architettonico con cui l’Italia unita costruisce caserme e prefetture; la Venere di Botticelli è l’influencer delle campagne turistiche odierne e Matera Capitale europea della cultura 2019 sente il dovere di imbastire un discorso riguardo un “Rinascimento visto da sud”, sulle evidenze di un contributo meridionale non sempre così lampante. Ma se affermare è un atto significativo, anche smentire, tacere o contraddire lo sono: cosa cela, così eloquentemente, ciò che rivela il Rinascimento?

Ad Armento, nella chiesa madre dedicata a San Luca, sono esposte le effigi settecentesche “controriformate” dei nuovi patroni: la Madonna della Stella e San Filippo Neri. Un fatto inconsueto, se consideriamo che il piccolo paese conserva le spoglie di ben due santi, San Luca di Demenna, e San Vitale di Castronovo: già stati patroni di Armento (e San Vitale lo è ancora a Castronovo), sono due santi siculo-bizantini vissuti a cavallo dell’anno Mille e restati con determinazione nella valle dell’Agri, dove secondo l’agiografia si sono opposti alle scorribande saracene che li avevano costretti a lasciare la Sicilia. Santi rimossi dagli immaginari, eppure importanti, fondatori e sviluppatori di abbazie e presidi di religiosità e cultura lungo tutta la Calabria e la Basilicata, come la vicina abbazia di Sant’Angelo al monte Raparo.

Perfino l’originaria chiesa di San Luca ad Armento è stata cancellata prima dalla geologia, e poi dalla storia: l’edificio attuale è una discreta ricostruzione degli anni ’50 in luogo di un precedente edificio franato, ed è già stato interessato da operazioni di riemersione culturale come il murale di San Luca e San Vitale dell’iconografo Igor Scalisi Palminteri (2022), sempre a cura di Porta Cœli Foundation. Al suo interno è conservato l’antico relitto del Polittico di Armento (XVI secolo) in cui la Vergine è affiancata da due partizioni che accolgono proprio i due santi “armentesi”, il tutto sormontato da ciò che resta della raffigurazione della battaglia dell’Abate Luca contro i saraceni. In un bel saggio di Daniela Artusi sul Polittico si racconta di come la persistenza del fondo oro in luogo delle più puntuali ambientazioni naturaliste tipiche del Cinquecento inoltrato si debba attribuire al fatto che le province aragonesi divennero ottime committenti di retroguardia per tutti quei pittori che, diventati di colpo obsoleti da Raffaello in poi, non ottenevano più commesse in cento Italia. Il Polittico è l’ultima committenza artistica di rilievo, cinquecento anni prima di Scalisi Palminteri, sulle iconografie dei due santi. Forse – ipotizza sempre Artusi – proprio con lo scopo di reinventare la loro centralità culturale e simbolica.

La persistenza dell’oro al fondo della loro raffigurazione, quindi, è solo una banale coincidenza. Nulla che abbia a che fare con l’omaggio alla religiosità delle origini bizantine, che adoperava l’oro per collocare la rappresentazione artistica in una dimensione di pura luce, di trascendenza, ma un semplice “ritardo” di sistema a un appuntamento con la storia. Un appuntamento, quello di Raffaello, del secondo Rinascimento e poi della Controriforma, che ha derubricato i due santi, il fondo oro, e tutto il complesso sistema simbolico dell’arte e della cultura a essi legato a scarto della storia.

Sarà Cennino Cennini, nel suo Libro dell’arte – tra le prime trattazioni artistiche della storia moderna – a parlare di Giotto, antesignano del pensiero rinascimentale, come di colui che «rimutò l’arte di greco in latino». Giotto compie l’operazione rivoluzionaria di collocare le scene sacre nel mondo dell’uomo: carne, aria, gravità, espressione. Nel racconto “politico” di Cennini, però, la scomparsa dell’oro è l’espulsione della sua valenza culturale come di qualcosa di estraneo al mondo occidentale. A nulla vale che alcuni dei più antichi e importanti prototipi di raffigurazione bizantina siano italiani, che da quella tradizione siano scaturiti almeno sei o sette secoli d’arte anche italiana, che Bisanzio si considerasse più romana di quella Roma stessa capitolata ai barbari, e che il Rinascimento sia debitore proprio agli intellettuali fuggiti da Bisanzio allorquando questa cadde, da allora in poi, in mano ai turchi. Cennini traccia irrimediabilmente un solco tra un “noi” e un “loro” che verrà, di qui in poi, introiettato in ogni narrazione sulle epopee della nazione italiana come della cristianità occidentale.

Loro. Persistenze dell’oro nel contemporaneo è un progetto di ricognizione su un fenomeno artistico forse radicato nelle specificità di un senso dell’abitate i luoghi: dalla generazione dei maestri – i “pittori del mito” – fino agli esordienti, dalle tecniche più radicalmente tradizionali fino alla smaterializzazione del processuale, l’oro rimane elemento presente e protagonista nell’opera di artiste e artisti lucani contemporanei. Un fatto palese, quotidianamente sotto gli occhi di tutti, e quindi generalmente restato sottotraccia, in stato di illeggibilità. Come ciò che è scontato o irrilevante, o meglio, come ciò che da accadimento puntuale diviene ambiente, temperie, atmosfera, e quindi, per paradosso, meno lampante.

Non ci sono state precedenti occasioni in cui un evento espositivo o una pubblicazione si siano poste il problema, non di analizzare, ma anche solo di rilevare che gli artisti contemporanei lucani ricorrano all’oro in modo sistematico, corrente, multiforme, in una maniera che niente ha a che fare con l’ottundimento dei sensi del Barocco, ma piuttosto con un senso della vertigine per il presentimento di dimensioni al di là del guado, o per lo svelamento di retoriche, più che mistiche, mistificanti. L’oro è recuperato come – o forse non ha mai smesso di essere – una materia semantica a sé, che non è possibile adoperare per rappresentare, fingere, somigliare, ma solo per avocare l’opera a una dimensione di liminarità che si spinga ai confini dell’insondabile, del paradosso, della negazione della materia. Com’è sempre stato nel paradigma del bizantino, e nel paradigma dell’icona come entità semiotica: icona è ciò che stabilisce col referente un rapporto di sostituzione simbolica che tuttavia non ha bisogno di passare per la somiglianza, la convenzione linguistica o l’evidenza di una traccia fisica (Charles Peirce).

Un fenomeno, quindi, che necessita di letture trasversali ed esplorative, che la Fondazione, nella sua vocazione al presidio del contemporaneo in Basilicata, aveva in mente da tempo. Un progetto che ha trovato la puntualità e la necessarietà per esplicitarsi nel percorso armentese per il recupero delle matrici culturali italo-greche del paese, lì dove si riconosce l’estraneo in se stesso, e “loro” diviene “noi”. Con la galleria civica “Ori e orazioni” che da oggi – speriamo – diventi punto di avvistamento privilegiato per una fenomenologia dell’arte sorprendentemente inedita.

Sono nove gli artisti in mostra, tra maestri ed esordienti: Dario Carmentano, Salvatore Comminiello, Maria Ditaranto, Pino Lauria, Felice Lovisco, Massimo Lovisco, Marcello Mantegazza, Saverio Palladino, Jessica Salvia. La mostra è allestita negli spazi per le azioni temporanee in Ori e orazioni, la galleria civica di Armento che proprio nei giorni dell’inaugurazione compie un anno di vita, ed è concepita come un piccolo scrigno di visioni intorno all’oro. La mostra ha anche propaggini diffuse: ogni artista espone anche nei luoghi della più commista e caotica contemporaneità, in tabacchi, bar, farmacie e alimentari del paese. Raggi dorati da cercare in mezzo alla confusione del quotidiano, per legare in maniera più stretta il lavoro della galleria alla vita del borgo, il sacro al profano, il sublime all’ordinario, perché entrambe le dimensioni, anche solo per un attimo ogni giorno, si ricollochino e ci ricollochino percettivamente in una nuova modalità della permeabilità emotiva e intellettuale, nell’arte come nella vita.

Dario Carmentano adopera l’oro ininterrottamente a partire dagli anni ’90: le sue tavole, i suoi papier découpé e le sue cartapeste dorate sono organici approvvigionamenti all’armamentario retorico del sacro, tra permanenza del rituale e aleatorietà delle narrazioni aggreganti, tra ossequio e dissacrazione. L’opera Senza titolo del 1994 è tra le sue opere più rappresentative e iconiche: la forma futuribile e medievale al contempo del catino d’acqua è la stessa che ricorrerà anni dopo nella sua opera relazionale Fonte del tempo, installata permanentemente alla Madonna dell’Idris per Matera Alberga, nel 2019. In essa la tavola dorata in maniera tradizionale, “bizantina”, accoglie iconografie che sembrano raccontare, con la pazienza di antiche miniature, elegie perse nella memoria dei popoli. L’opera fa parte del periodo che l’artista chiama delle “ibridazioni antropologiche”: parla di un senso del religioso che è mistero e artefatto, inganno e rivelazione, alla ricerca di immagini collettive, emblematiche, eppure inedite e introverse, che si fissano nell’immaginario con l’incisività di segni rupestri svelati.

Salvatore Comminiello si smarrisce tra epopee e fiabe, sogni e racconti lontani, in una dimensione dell’evocazione che è preverbale, e che attinge a un serbatoio condiviso –eppure in continua negoziazione – delle significazioni associate al decoro, al colore, alle forme. La decorazione, in particolare, è la disciplina che rende le superfici testi narranti: non orpello o superfluo, come vorrebbe una certa retorica funzionalista non priva di misticismi, ma fondamentale pratica della connotazione, dell’intertesto e dell’ipertesto intorno ai vocabolari del visivo. In Comminiello l’oro è uno di quei lemmi dell’evocazione: prezioso, raro, da usare con parsimonia. Come altri colori puri in forme pure, sfonda le superfici della commistione tra segni, buca i livelli e sovverte la planarità lucida dei suoi acetati, oppure si fa cornice, tabernacolo, teca.

Maria Ditaranto ricorre da sempre alla figura umana come nucleo in cui si mette in scena tutto il dissidio dell’esistenza, che è la materia privilegiata – forse l’unica degna d’essere trattata – dell’arte. Basta un gesto, una torsione, la posa di una mano per evocare allegorie sublimi, frammenti dispersi di mitologie dismesse, sacralità senza liturgie. Il “santo” che realizza appositamente per Armento sull’agiografia di Luca e Vitale è scomposto in due profondi “reliquiari” dorati, in cui far procedere lo sguardo alla ricerca di una risposta nel mistero dell’effigie. Un discorso che è tanto sacro quanto sensuale, che ricorda i ragazzi di Vincenzo Gemito o Francesco Parente, di William Reid Dick o di Charles Ray: eroi efebici e indifesi, acerbi custodi di una forza innocente e sfrontata. L’oro è rituale impalpabile, ma anche irruzione, abbaglio.

Pino Lauria guarda al vocabolario del sacro come a un paramento teatrale, alla liturgia come a una drammaturgia per amministrare ciò che è fatalmente, strutturalmente sfuggente. Da restauratore per i beni culturali conserva però anche un senso di disillusa e smaliziata facoltà di intervento su quella che è pur sempre una lingua, quindi una materia dell’uomo. Così aureole e decorazioni sacre, simboli e strumenti liturgici diventano elementi per una rappresentazione effimera, che distorce la materia del sacro ma che la riporta anche allo scandalo del vitale, all’oscenità del cogente, del contingente: il sacro cuore è un vero cuore infilzato da schegge di vetro; la santa è una splendida figura di genere impalpabile, nuda, che riporta inciso sulla pelle ciò che altrimenti sarebbe ricamato in oro sulle stoffe di un abito. Una teatralità paradossale che ci ricorda come anche la “verità”, per apparire tale, ha bisogno di essere messa in scena.

Felice Lovisco, maestro “transavanguardista” dell’arte lucana, partecipa con generosità con una serie di piccole opere appositamente realizzate, in testimonianza di una lunga e strutturata relazione con l’oro e con il sacro. Due teatrini fatti di aggregazioni frugali ed evocative, e un’icona dipinta su un vassoio da pasticceria: intessute di rimandi e richiami, da Schwitters ai surrealisti, dalla Pop al New Dada, fino alla summa novecentista del Postmoderno, usano l’oro come isola sicura in un mare simbolico in tempesta che ci vede tutti naufraghi dell’interrelazione e della cultura. Lì ci si può incontrare per celebrare il rituale di ogni gruppo umano che misteriosamente si ritrovi nella comunanza del linguaggio, senza sapere come o perché, con l’incubo latente che tutto ciò possa decadere da un momento all’altro così come è cominciato. Una prova di levità, sapienza, freschezza, disinvoltura, data da chi per una vita è stato uno specialista degli immaginari.

Massimo Lovisco è il riferimento del relazionale nell’arte lucana: ogni opera d’arte è sempre un dispositivo di negoziazione sociale, macchina a orologeria delle significazioni. Fotografo, musicista e ideatore di happening, è debitore al concettualismo che da Duchamp a Cage, fino all’estetica del relazionale degli anni Novanta, incastra l’uomo nelle sue stesse convenzionalità, facendo del linguaggio un meccanismo auto-sabotante. Icona d’oro (Solaris) è una scatola chiusa da un lucchetto dorato in cui si cela una frase incisa su oro: è il risultato dell’interlocuzione con l’intelligenza artificiale, che ha ipotizzato per suo conto l’opera, così come l’oceano gelatinoso del pianeta Solaris (Stanisław Lem, 1961) è in grado di penetrare nella psiche dei suoi visitatori generando realtà inesistenti. Senza Titolo (Mille e non più Mille), opera inedita del 2001, è una banconota da mille lire, tra le ultime «pagabili al portatore» in oro, contrassegnata dal baffo di duchampiana memoria: è un esemplare di una serie di omologhe, inconsapevoli opere disperse per il mondo.

Marcello Mantegazza, già protagonista della personale 404.02 / Una specie di verità (2021) in cui si ragionava degli strumenti imperfetti, autoreferenziali e vaniloquenti della scrittura storica e del monumentalismo, estrae dal proprio studio due opere inedite. Ricorrono all’oro come a quell’artificio attraverso il quale la caducità dell’umano si aggrappa disperatamente alla dimensione dell’aulico e di una sacralità imperscrutabile e retorica. Atto che paradossalmente non può che evidenziare, per contrappasso, la pulsione umana a espellere lo spettro della finitezza dalla propria coscienza. Noli me tangere, in particolare, è un topos dell’iconografia sacra: Cristo risorto intima alla Maddalena di non toccarlo, di non chiedere prova della sua carnalità, di non trattenerlo nella dimensione umana. La frase, incisa e dorata a caratteri romani su una lastra di marmo, è cosparsa di frammenti di oro zecchino. Una trappola tentatrice contro le tipiche convenzioni museali poste a protezione della supposta, fragile, imperfetta sacralità rituale dell’opera d’arte.

Saverio Palladino, rappresentante di una quarta generazione di artigiani, è un progettista e tecnico del legno che adopera strumenti digitali avanzati e lavora da anni nell’ambito della museografia e del restauro di beni culturali. Il suo rapporto con i materiali lo porta a ragionare su prestazioni, comportamenti, effetti, potenzialità di ciò che deve normalmente essere riportato, anche in maniera oppositiva e contraddittoria, alla regola del progetto. Le sue opere però sono fughe e riconciliazioni potenziali e utopiche con questa dimensione, in cui il materiale si affranca dal progetto per esprimersi in sé, quale meravigliosa espressione di forme autogenerate, già bastevoli per articolare sensi che non necessitano di sintassi. La doratura a guazzo interviene a sottolineare questi rinvenimenti: agglomerati di gesso o circonvoluzioni di legno vengono interrogate nelle loro intrinseche ragioni. Divengono sculture di pura forma, e lasciano la dimensione materiale per esprimere una poetica che è dentro la natura e fuori dalla facoltà di parola.

Jessica Salvia è vincitrice del Premio del presidente al Mediterranean art prize 2023 dove esordisce con le sue strutture in metallo, resina ed elementi riflettenti dorati. Partecipa in questo contesto con tre piccole opere create appositamente, in cui la lucidità e l’impalpabilità della superficie, le geometrie pulite e assolutamente astratte, fanno tendere l’oggetto alla dimensione aniconica, puramente non rappresentativa, che fu di Malevič come di Mondrian, o del Proun di El Lissitzky. Un linguaggio che rifugge convintamente dalla referenza al mondo del reale, dal somatismo, dalla rappresentazione, in cui l’interazione talvolta ambigua tra sfondi e figure, tra quadro e non-quadro, diventa un campo significante, che segue le regole della psicologia della percezione, delle teorie della Gestalt (psicologia della forma): solo segni, simboli o movimenti allusivi, metaforici, che esprimono allegorie in aperta polemica con la cultura dell’immagine come rivelazione. Una cultura che è occidentale e profondamente cattolica, legata alla rappresentazione acheropita del Cristo nella vera icon, nel Mandylion, nella Veronica.

Loro è un punto fuori dal tracciato, un necessario deragliamento, com’è proprio di ogni azione significativa nell’ambito del contemporaneo. È il necessario contrappunto alla collezione di icone bizantine di Ori e orazioni, un primo atto di attivazione di una vocazione alla lettura dei fenomeni per trasversalità, per intersezionalità, che possa essere operata in maniera più fondata e pertinente a partire da un punto di avvistamento come quello di Armento: non asserzioni lapidarie, che si impongano per mole o monumentalismo del gesto, ma sottili opere di ritessitura dei nessi, di narrabilità dell’agire artistico contemporaneo, di ricucitura con il quotidiano.