Luigi Guerricchio Nei campi, 1968 tecnica mista su carta cm 120 × 80

404.04 / Gli artisti del mito e le urgenze di un indicativo presente


Donato Faruolo 
Curatore della mostra 

Manca un incipit, a questa storia. Perché a meno di quattro mesi dalla scomparsa di Donato Linzalata questo convegno in cima a un luogo d’elezione come Monteserico non può assumere toni banalmente commemorativi o epigrafici, né consentirsi la freddezza e la lucidità analitica di uno sguardo retrospettivo: non per etichetta o senso dell’appropriatezza, ma piuttosto per uno spirito di fedeltà a quel senso di verità profonda che muove gli artisti convenuti a raccolta. Assume piuttosto il carattere di una diversa necessità: transitoria, provvisoria, precaria, ma pur sempre una necessità. Un raduno, come quelli familiari alla cultura mediterranea del convivio, caratterizzato da un’urgenza sospesa che non assume determinazioni, che non intende lanciare dichiarazioni definitive, ma in cui tuttavia si deve testimoniare la propria appartenenza e il proprio estraniarsi. Un rito che deve essere continuamente reiterato e tradito.

Il dispositivo del convivio è in effetti un elemento chiave in questa incursione in una storia che scorre. Donato Linzalata e i pittori del mito sono soliti radunarsi infinite volte, in configurazioni diverse, intorno a un tavolo: a casa di uno di loro o in una taverna, a seguito dell’inaugurazione di una mostra a cui qualcuno di loro ha partecipato o che semplicemente hanno visitato insieme. Con lo stesso spirito si incontrano qui: sono Giovanni Cafarelli, Dario Carmentano, Salvatore Comminiello, Gerardo Cosenza, Nicola Filazzola, Luigi Guerricchio, Pino Lauria, Felice Lovisco, Antonio Masini, Arcangelo Moles, Pino Miriello, Pino Oliva, Nino Tricarico, molti dei più rilevanti personaggi di un panorama dell’arte del secondo Novecento lucano (e talvolta non solo) che qui ricostituiscono gran parte del contesto culturale e relazionale in cui Donato Linzalata opera. A quel tavolo, come oggi, si consuma ogni volta la sottile liturgia della comunità artistica lucana: comporta riconoscersi, contarsi, tradirsi, misurarsi, scontrarsi, riconciliarsi per mezzo di qualcosa che al fondo li accomuna tutti, cioè il fatto di trovarsi, da appartenenti a una cultura frugale e allo stesso tempo oscuramente pragmatica e trascendentale, impegnati in una pratica che appare (ed è) imprescindibile, ma che è passibile di essere valutata non solo come superflua, ma perfino come nociva a uno spirito di economia di quelle energie che la comunità impone vengano spese per le urgenze della sussistenza.

L’arte è, presso questa come presso similari culture frugali, un’attività da praticare con discrezione: alla propria cerchia sociale ed economica si deve dichiarare con prudenza di voler “sottrarre” una parte delle proprie facoltà produttive da impiegarvi. Prima che arrivi il divieto, lo scherno, la censura, si soppesano con attenzione le reazioni e gli sguardi di chi deve constatare la comparsa nel mondo degli strani oggetti dell’arte: strumenti che non servono e che non cercano efficacia. Una sorta di indicibile tabù, tanto più sottilmente capace di perturbare certi taciti patti sociali quanto più se ne parla in vacui superlativi assoluti nei contesti che fanno opinione. Anche per questo l’artista che opera in tale contesto spesso mutua le forme del sacro, uniche escursioni possibili dal piano dell’ordinario: un sacerdote illuminato, un officiatore di liturgie, un tramite verso forme di coscienza superiore, un veggente, uno sciamano, un conoscitore di codici arcani, un saggio osservatore della società.

Anche Donato Linzalata, quando parla del proprio lavoro, assume spesso toni gravi e solenni. Ma non è mai un vestirsi di abiti vacuamente retorici, come fa spesso chi vi orbita intorno per complesso, osmosi o emulazione: è piuttosto l’espressione di una necessaria ostinazione a consumare e consacrare la vita alla religione interiore dell’arte, anche lì dove ciò vada fatto contro ogni evidenza, contro ogni senso dell’opportuno. Religione intesa non come cocciuta ortodossia a una rivelazione, ma come re-lègere, cercare con attenzione, o re-ligàre, unire insieme in un’assemblea. Perché l’arte non acquieta, come farebbe l’ottundimento dei sensi, ma logora, come ciò che ci strappa via dalla quiete di ogni mistificazione.

Per questi artisti, quindi, essere contemporanei non vuol dire semplicemente condividere un tempo – entro lo stesso gruppo o con un pubblico – ma piuttosto trovarsi naturalmente sintonizzati su un’urgenza culturale la cui pregnanza sembra in gran parte sfuggire alla propria comunità. A vario titolo, tutti gli artisti convenuti sembrano dover operare sul crinale tra una cultura rurale e una cultura neo-urbanizzata che pochissimo concedono al decoro: la prima, lo intende entro quello spazio angusto e potente che si estende quel tanto che basta ad assolvere il binomio in cui “decoro” significa “ornamento” ma anche “dignità” (il portale di pietra, il cassone di legno, il copriletto all’uncinetto su cui tanto hanno lavorato l’etnografia come pure Donato Linzalata o Mario Cresci); la seconda, nel suo culto per le superfici levigate dell’alluminio, della plastica, della fòrmica, pur si compiace di estrinsecare la potenza della produzione industriale in ghirigori e prodezze (tessuti, piastrelle, carte da parati iperelaborate, status symbol dell’emancipazione dalla miseria sopravvissuti almeno fino agli anni ’80). Ogni altra deviazione dal percorso del produttivo è ritenuta sconveniente.

Tutti questi artisti, spesso con penuria di mezzi e con più o meno osteggiamento sociale, si trovano di fronte alla necessità di elaborare gli epocali contraccolpi di una metà di secolo vorticosa, che in modo particolare in Basilicata vede definirsi e immediatamente dismettersi la cultura contadina, sorgere e decadere le aspirazioni del globale, archiviare e rimpiazzate i grandi apparati simbolici della storia. Lo fanno, ovviamente, ritagliandosi ruoli molto diversi. Non serve, in questa sede, fare una trattazione critica dei singoli percorsi, operazione che farebbe implodere il convivio nella dimensione banalmente additiva della mostra collettiva, della rassegna. Interessa piuttosto provare a leggere una parabola e comprendere in che modo il lavoro di questi artisti abbia lasciato emergere, nel complesso, il polso vibrante di un mondo alle prese con profondi tumulti culturali. Interessa leggere, quindi, come la sostanza del mito sia diventata un livello di condivisione di tale convinzione e persistenza da rendere i partecipanti a questa mostra i componenti di un “movimento” talvolta tacito e spontaneo, talaltra programmatico ed esplicito, capace di andare ben oltre la pura comunanza geografica, temporale, di interesse o di campanile.

Prima, Luigi Guerricchio (1932 — 1996), pur profondamente intessuto di cultura realista, socialista, guttusiana, leviana, ne brucia i codici e le ortodossie in un linguaggio in cui la cultura contadina assume la pregnanza dell’emblema e non della cronaca o dell’etnografia, né tantomeno del rimpianto, e in cui la tecnica non si fa mai olegrafia, ma anzi cerca l’incidente, l’impurità, la commistione, la corruzione, ossia la frammentarietà e la contraddizione dei tempi moderni.

Poi, Antonio Masini (1933 — 2018), Nino Tricarico (1938), Nicola Filazzola (1947), Giovanni Cafarelli (1949), Felice Lovisco (1950), Gerardo Cosenza (1954 — 2005), sempre in bilico tra figurazioni e trasfigurazioni, assumono un atteggiamento spesso lirico di fronte a un mondo in cui perfino la radice immutabile dell’umano appare passibile di obsolescenza e un intero apparato di linguaggi e simbologie vacilla. Rispondono con l’epopea, la tragedia, l’epigrafe, con la declamazione talvolta solenne, col gesto olimpico, eroico, con una militante resistenza culturale che non è passatismo e reazione, ma attiva riformulazione degli statuti di umanità al variare dei tempi. È appello ed estremo ricorso alla forma della scrittura pittorica, alla ricomposizione e alla conservazione della funzione dei grandi racconti. Questi artisti riprendono l’impresa culturale virgiliana applicandola alla cultura agreste: ne certificano la nobiltà nella sua capacità di ritualizzare e celebrare le invarianti della natura, il suo perdurare, la sua ciclicità. Dalle strutture del naturale, in definitiva, sembra trarsi la radice dell’epica, tra trascendenza e immanenza, tra elevato e profondo, tra devozione e trasgressione, tra solenne e frugale, tra aulico e prosaico, tra celebrazione e biasimo.

Poi Salvatore Comminiello (1958), Pino Miriello (1959), Pino Oliva (1965), che esprimono il frastornamento di fronte a un mondo indecifrabile, dove i codici si accartocciano su se stessi e si va in cerca di armonie poetiche come in una selva si va in cerca di una via d’uscita dal presagio nefasto. I materiali e le tecniche diventano irrequieti, si diversificano nella continua ricerca di un deragliamento dal solco della storia. Dismettono in parte il lirismo e il senso di assoluto. Diversissimi, esprimono le esigenze nuove di una generazione in cerca di singolarità e di divergenze, pur sempre saldamente ancorati alla narrazione di un’invariante, che non è più quella radicale dell’antropico/naturale, ma è quella del metaracconto, del racconto dei racconti, dei codici più che della storia.
Infine Pino Lauria (1956), in bilico tra i due gruppi, o Arcangelo Moles (1954 — 2015) e Dario Carmentano (1960), in cui l’assalto al cadavere dei paradigmi culturali è spesso frontale, in cui la dimensione lirica e trascendentale non è più una forma di salvezza possibile. Irrompe l’ironia, il distacco, l’insolubile scetticismo verso ogni apparato che sia volto a regolare in un codice sociale o in una sovrastruttura il rapporto dell’uomo col mondo e con gli altri. Non si tratta però di puro nichilismo: ripulito il campo dall’affabulazione, resta al fondo un uomo originario, primigenio, liberato dalle proprie zavorre, ma non dagli apparati simbolici. Il mito è ormai una narrazione palese, una favola necessaria a cui non possiamo più credere, e che è necessario rifondare su nuove basi.

Tutti sono alla prova con la plastica sensazione del tramonto, non di un mondo, ma del mondo, con la dismissione di caratteri antropologici che apparivano immutabili, e spesso con il discredito perfino delle ragioni stesse di quella dismissione. Non sorprende che mentre Jean-François Lyotard teorizza la fine delle grandi narrazioni, più o meno contemporaneamente Denise Scott Brown e Robert Venturi tornino a cercare sacro, simbolico e gerarchie nelle strip di Las Vegas e Achille Bonito Oliva metta a paragone gli artisti della Transavanguardia e il loro ritorno alla drammaturgia del pittorico con l’esistenzialismo sbieco del Manierismo, che reagisce al crollo della centralità culturale di Roma dopo il suo Sacco a opera dei Lanzichenecchi (1527).

Franco Palumbo (1930 — 2011), storico presidente e fondatore del Circolo La Scaletta di Matera cui Donato era legato, in occasione della mostra Le sculture di Donato Linzalata (Circolo Italsider, Taranto, 1978) scriveva: «Il marmo, portato da lontano, permetteva agli artisti tarantini di scolpire meravigliose figure che fanno lo splendore dei musei. Con il tramonto della Magna Grecia, scompariva dalla nostra terra la pietra, e gli scalpellini scelsero il carparo, il tufo, il legno e la cartapesta. Col medioevo finì il tempo in cui la materia veniva accarezzata, modulata in sottili passaggi di luce, e la pietra, il legno, i materiali diversi venivano aggrediti per ricercare ed imprimere una maggiore evidenza degli oggetti, una più autentica espressività, un sentire la vita con tutte le sue povertà. La narrazione, a questo punto, diventa popolare, le figure rasentano il tormento, lo scalpello incide l’anima. Attraverso la materia l’artista realizza la severità della condizione umana. La pietra diventa luce e rimorso. I volumi si sublimano in monumenti di preghiera. La stessa preghiera oggi noi raccogliamo dall’opera di Donato Linzalata […]».

È una lettura precocissima e concreta, che interviene sull’opera di Donato Linzalata prima che il totemismo e l’arcaismo diventino delle gabbie critiche in cui arginare e talvolta sterilizzare, riducendolo a icona, un percorso artistico portato avanti con caparbietà e incredibile tenacia. Nello specifico, Palumbo parla delle sue sculture giovanili in cui compaiono grappoli antropomorfi, ma è indubbio che Linzalata abbia conservato per tutta la propria vita una parte rilevante di quei caratteri. Ciò che appare tuttavia davvero interessante in questa lettura è il riemergere, ancora una volta e sotto una veste straordinariamente diversa, del tema dell’arte alla prova con la fine di un paradigma culturale.

Le opere di Donato Linzalata, così come per i manieristi del Cinquecento, i transavanguardisti e gli artisti convenuti a Monteserico, è un’arte intrinsecamente transizionale, animata da dubbi o da enormi verità relative, in cui nessuna opera è definitiva, assertiva, compiuta come lo sarebbero una Pala di Brera o uno Sposalizio della Vergine, ma tutte collaborano alla composizione di un vocabolario plastico, modulabile, dalle infinite configurazioni possibili. La forma rifugge per intima costituzione dalla tentazione del naturalismo: non esiste arte che possa trarre valore da una posizione di frontalità somatica con il mondo. In compenso vi si pratica un debordante sincretismo teso a cogliere una radice invariante del mito che possa resistere a ogni tempesta e a ogni crollo, come ultima risorsa dell’umano. Come tutti i suoi compagni d’avventura, Donato Linzalata lavora nella dimensione transtorica del racconto, quello strumento che è in grado di dire qualcosa a proposito del reale nelle trasposte spoglie della finzione: senza pretendere di regimare il corso delle cose, tramandando senza asserire, facendosi ponte, forse faro o totem, ma non idolo.

Spesso per loro la polemica con il levismo è aperta e feroce: la stanchezza di un realismo mistificante e di maniera, che stende strati di melassa sull’atrocità della povertà trasfigurata acriticamente in arcadia perduta, che diventa patente di lucanità, che suggerisce quali discorsi sia opportuno o meno sollevare nei consessi culturali per ottenerne l’assenso, è il nemico naturale di un gruppo di artisti votati all’Europa e al mondo, che si associano, si costituiscono classe intellettuale, pubblicano riviste, scrivono saggi, viaggiano per mostre e biennali. 

La mostra Al monte della seta, titolo derivato dall’etimologia mitica di Monteserico, si articola in diversi ambienti del castello. Nelle due sale principali al piano di ingresso, due grandi agglomerati scultorei prendono aria nello spazio configurandosi più come installazioni che come allestimenti enciclopedici, a privilegiare non lo sguardo analitico quanto il potenziale del segno, l’incisività spaziale del sistema di modulazioni, la sua pregnanza ed efficacia espressiva: sono stanze pensate per trasmettere la singolarità e la potenza di uno sguardo sul mondo più che per sollecitare una contemplazione intellettualmente mediata. Pretendono di cogliere la scultura come fatto vitale, e non il suo valore documentale di fatto non più attuale.

In una stanza, grandi opere verticali e una porta, tutte di legno chiaro sbozzato e non patinato (soprattutto pioppo) appartenenti alla ricerca condotta negli anni ’90; nell’altra una folla di piccole e medie sculture parzialmente colorate, quasi tutte inedite, facenti parte dell’ultima fase del lavoro dello scultore, quando era alla ricerca di una dimensione più domestica, di modalità di produzione più semplici e prolifiche, e al contempo meno gravose per un corpo che cominciava a fare fatica dietro alle esigenze dettate dalla mente. Diverse altre sue sculture, a testimoniare fogge, tempi e modi diversi di operare, sono invece sparse per le altre sale in dialogo con le opere pittoriche degli artisti convenuti, o con brani particolari del castello.

Per chiarezza, efficacia, concisione, per venire incontro a questa idea non documentale ma di arte in pieno esercizio, si è scelto di rappresentare il lavoro di Donato Linzalata solo attraverso le sculture, parte preponderante del suo lavoro, pur essendo egli anche pittore e incisore; e di testimoniare il lavoro degli altri attraverso opere pittoriche o comunque per lo più bidimensionali, pur essendo molti di loro, in quota minore, anche scultori.

Menzione a parte per le Steli di Monteserico: tre opere esili e slanciate a vocazione ambientale che Linzalata aveva immaginato appositamente per l’energia di un paesaggio che si trova oggi in un frangente capitale, tra riconoscimenti istituzionali di pubblico interesse, difesa da incursioni speculative e ricerca di un nuovo ruolo attivo nelle dinamiche sociali e culturali del territorio.

Se c’è uno scenario chiaramente delineato da questa mostra – e che ne segna un’urgenza tutt’altro che celebrativa – sta nella constatazione di un radicale deterioramento della cultura artistica sul territorio dai tempi degli artisti del mito. Le istituzioni sono ancora in imperdonabile ritardo su ciò che riguarda il presidio sistematico e qualificato dei fenomeni del contemporaneo, e gli artisti, quando hanno ancora il coraggio di esserci, non hanno ragioni e occasioni per interloquire con i territori. Non c’è traccia di infrastrutture culturali stabili che consentano alle ricerche artistiche di emergere, storicizzarsi, confrontarsi nella specificità del contesto, come avviene invece in quasi ogni regione d’Italia. Non esistono strumenti per la costituzione di nuove collezioni pubbliche, fruibili e di rilevanza storica e scientifica: un’occasione che sfuma sotto i nostri occhi e che presto diventerà impraticabile. Fenomeni come la grande stagione della fotografia del Novecento in Basilicata o la trasposizione dei saperi artigiani del legno, del tessile, della pietra nelle pratiche del design contemporaneo non vedono punti di riferimento istituzionali sul territorio. A emergenze nazionali come la Pinacoteca Camillo d’Errico non è dato il fiato per guardare al futuro. Di un museo d’arte contemporanea o di un’accademia di belle arti in regione nemmeno si parla più. La dimensione di organica consonanza tra figure intellettuali è irrimediabilmente perduta. I pubblici dell’arte, invece, sono polverizzati tra eventifici estivi e un collezionismo senza bussola, divenuto un fenomeno pulviscolare, residuale, illeggibile se non risibile.u
Ecco perché una mostra su Donato Linzalata e il suo ambito culturale lucano è inserita entro la cornice di 404, in ottemperanza al suo scopo statutario: serve a ricordare che la condizione di minorità è determinata e perseguita, e non è un ineluttabile flagello del destino; a ricordare che la perifericità rispetto ai sistemi economici non determina automaticamente quella dai sistemi culturali; che lì dove non esistono interlocutori è difficile lamentare l’impossibilità di aprire discorsi; e che lo spazio civico dell’arte è il primo effetto e tra le prime precondizioni di una salute sociale che va difesa, perché non esistono conquiste acquisite, ma basta l’inazione e la mancanza di presidio per recedere fino al punto in cui, nelle offerte culturali, anche solo nutrire un’aspettativa appaia un lusso inimmaginabile.

Agli artisti e agli eredi che hanno aderito va una profonda gratitudine per aver sostenuto quest’idea “transitoria e necessaria”, e per aver schiuso processi e percorsi intellettuali che hanno permeato la storia culturale di questo territorio in fasi capitali del suo sviluppo: conoscere ciò che ha dato una forma al tempo che abitiamo vuol dire conferire un senso a una realtà che sarebbe altrimenti un ammasso di casualità senza conseguenze. A Donato Linzalata e alla sua famiglia, a Franca e ad Angelo, va il riconoscimento per aver offerto alla loro comunità un patrimonio culturale straordinariamente singolare e potente, opera di una delle indoli artistiche più motivate, oneste e ostinate. È ora dovere morale della comunità farsi carico della responsabilità di dare una forma istituzionale e quanto più partecipata a ciò che per forza di cose contribuirà a scrivere il suo futuro, così come questo castello ci obbliga a ripensarci in una prospettiva che sia all’altezza dell’orizzonte che traccia.