404.03 / Eli Dijkers.
Tarsus
Donato Faruolo
Curatore della mostra
Avviato nel contesto di una residenza d’artista che il fotografo Eli Dijkers ha svolto in Basilicata nel 2018 con Porta Cœli Foundation, Tarsus è l’involontario esponente contemporaneo di un format – quello del fotoreportage di scoperta e esplorazione in Basilicata – antico e fortunato che vede in Tricarico e nella sua collezione pubblica un importante testimone, custode, propagatore.
Il progetto approda in mostra a Tricarico in conclusione della mostra Strangers and strangeness. Planet mending practices che Porta Coeli Foundation ha realizzato in occasione del summit dei ministri degli esteri del G20 a Matera. In quell’occasione il lavoro di Eli Dijkers è stato esposto in contrappunto con il fondo tricaricese di Henri Cartier-Bresson: entrambi focalizzati sull’idea di una fotografia come strumento per addentrarsi nelle maglie di un tessuto sociale complesso e non direttamente esperibile, con le loro foto in Basilicata aprivano e chiudevano la parabola di un racconto sui racconti territoriali, dalle soglie del processo di irruzione del moderno in regione con Carlo Levi allo sdoganamento internazionale di Matera Capitale europea della cultura 2019.
Se il peso delle azioni che compiamo in un dato contesto è determinato dalla possibilità di scorgervi codici e rituali della cultura che abitiamo, il passaggio di Eli Dijkers nella casa della fotografia lucana acquisisce il tono di un momento necessario e fecondo sulla via della costituzione di un atto di rilevanza storica.
Il titolo del progetto, Tarsus, è l’originale controindicazione a una suggestione che molti non-italiani utilizzano per indicare il territorio italiano: se l’Italia è uno stivale, per Eli Dijkers la Basilicata deve esserne il tarso. Ossia quella parte dello scheletro del piede che si trova tra gamba e dita e che, attraverso un’architettura complessa e minuta, consente di esprimere una gamma di movimenti anche molto articolata e sottile, e che al contempo può sopportare forze rilevanti e inibire movimenti indesiderati, consentendo così di camminare e – all’uomo – di mantenere la posizione eretta.
Scrive Dijkers: «Sebbene questa regione sia considerata la Siberia d’Italia, il paesaggio ondulato, fatto di pianure, burroni, pascoli e vallate è selvaggio e bellissimo. Per gli abitanti, i villaggi barricati sulle cime delle montagne erano gli unici paradisi sicuri in un ambiente storicamente ostile. Mentre alcuni sono andati alla ricerca di una vita migliore, quelli che sono rimasti sono resistenti e intraprendenti con ciò che c’è a portata di mano. A volte lasciano intravvedere il loro mondo dietro chiave e lucchetto».
Eli Dijkers, di formazione scientifica, tuttora lavora per una casa farmaceutica. Prima ancora di diventare fotografo mostra a più riprese l’esigenza di travalicare i confini disciplinari e metodologici del lavoro scientifico per appropriarsi di strumenti di coscienza più appaganti e per intrattenere una relazione nuova e personale con il mondo. Decide quindi di porre al centro della propria attenzione uno sguardo che sia finalmente capace di rivelare realtà plurime, un processo – non più tecnico-scientifico – che attivi il rapporto tra uomo e ambiente in una conversazione che, nella propria fluidità, porti a una forma di reciproco riconoscersi. Nella sua visione non esiste sguardo che si affermi in modo assoluto al di sopra delle cose, né concezione di spazio/ tempo che prescinda dall’esperienza di una coscienza. Si intuisce piuttosto un dinamico e non sistematico afferrarsi basato su piccoli ridestamenti improvvisi. Si tratta di una costellazione di piccoli lapsus in un flusso di perenne torpore che nella sua fotografia sono elevanti al rango di verità, pur episodiche, relative, prospettiche, ma capaci di testimoniare una qualche ragionevole presa sulla realtà. Un radicamento precario e poetico su un senso non definitivo, ma capace di dare un peso al transitare del fotografo attraverso il mondo.
La sua è una pratica del tutto priva di assunti ideologici o di obiettivi di coerenza estetica. Anzi, ha come unico proposito proprio la degradazione di ogni formula dello sguardo, di ogni procedurale impersonale, preconcetto, di ogni modalità acquisita. Esponente di una visione tutta personale e contemporanea della street photography, Dijkers troverebbe infatti angusta perfino la coerenza interna di uno dei modelli più universali del linguaggio fotografico del ventesimo secolo: all’attesa e alla ricerca dell’attimo significativo – secondo quella disciplina massimamente esemplificata da Cartier-Bresson – Dijkers oppone una fusione empatica con la fluidità degli ambienti. Non più un uomo di fronte a uno scenario, un mondo come teatro di fatti che accadono, un’opposizione tra piani paralleli. Ma un uomo che si pone in relazione, dall’interno, attraverso il proprio guardare, con un universo stereotomico, indefinitamente fotografabile, senza vettori preferenziali, dove non esistono spettatore e spettacolo. La poetica non è nella rappresentazione (ri-presentare un soggetto dopo essersene allontanati, dopo averne preso le distanze), ma nella modalità stessa della visione, della circospezione, della sintonizzazione continua e sincronica con la scena.
Se la medicina attraverso la lettura dei sintomi inventa la semiotica e la farmacia attraverso la composizione degli elementi cerca le cure, il fotografo contemporaneo espone una propria ragionevole disillusione rispetto alla significatività e alla rimediabilità sistematica delle cose. Non esprimendo una posizione nichilista, ma piuttosto partendo dalla consistenza plastica di uno stato di necessaria incoscienza perenne, esercitata con costanza e non senza fatica. Solo spogliato di ogni aristotelica certezza il fotografo può fare l’esercizio di confondersi nelle cose, di rinunciare alla chiarezza per adottare strategie non codificabili che possano offrire episodicamente la consolazione di una sintonia con il mondo.
In Basilicata, a partire dagli anni ’50 del ventesimo secolo, a contatto con quella civiltà contadina in apparenza atavicamente immobile portata alla ribalta mondiale da Carlo Levi (e anche questa è una grande storia di reimmissione in società delle minacce dell’alterità attraverso un racconto), l’antropologo Ernesto de Martino coglie i semi delle patologie cognitive dell’uomo contemporaneo alle prese con una propria collocazione incerta e precaria nelle strutture fluide e talvolta aleatorie del paesaggio moderno. Per fare ciò apre la strada, direttamente o indirettamente, a eserciti di fotoreporter e documentaristi, impegnati in un lavoro collettivo che parte da esigenze puramente etnografiche, ma che ben presto finirà col connotarsi come una vera e propria corsa all’esaurimento del programma del fotografabile. Tra gli anni ’50 e ’80 transitano in Basilicata con intenti ed esiti assimilabili, ad esempio, Franco Pinna, Mario Carbone, Fosco Maraini, Piergiorgio Branzi, Luigi Di Gianni, ma anche gli internazionali Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Marjory Collins, Josef Koudelka. Per la potenza di alcuni rituali e costumi che sembrano discendere dalla notte dei tempi e il pittoresco e l’orrido della dimensione rurale, film e fotografie oscillano in alcuni casi tra la tentazione di performare nell’abitante lucano un’immagine latente di oscuro e inestricabile che la società metropolitana moderna ha esorcizzato, e la volontà di inserire immagini di inarrivabile evocazione e potenza in sceneggiature più o meno di genuina invenzione. Come fin dai tempi della Scuola di Yokohama, ancora una volta una fotografia di viaggio e di strada è al centro di quel processo che serve all’uomo per ricostituire il senso della propria collocazione nel cosmo a partire da una nuova consapevolezza acquisita in una dislocazione geografica. Quale che sia l’approccio adottato, la fotografia è assunta come strumento principe per la presa di coscienza e per la formalizzazione di un’immagine territoriale che sia possibile comunicare per un luogo ancora fuori dagli immaginari di massa, e la Basilicata finisce con l’occupare una posizione del tutto privilegiata e peculiare nella storia internazionale della fotografia del Novecento.
Un luogo che per almeno un paio di secoli è stato serbatoio inesauribile dell’oscuro, dell’insondato, terreno di caccia per trovatori e studiosi di archeologia, viaggiatori romantici deviati dalle vie più battute dei grand tour, poi etnografi, quindi fotografi, cineasti, quindi ancora turisti in cerca di esperienze non main-stream, e infine cercatori del più oscuro e insondato dei beni materiali, il petrolio. Alle soglie di Matera 2019, la Capitale europea della cultura in Basilicata, forse per la prima volta nella storia la regione “normalizza” la propria presenza negli immaginari globali: un processo forse necessario in un contesto in cui l’industria turistica coincide spesso con quella culturale e occupa una posizione di egemonia, talvolta di irrinunciabilità, ma che porta con sé una ben nota serie di possibili effetti collaterali. La Basilicata del ventunesimo secolo diventa anch’essa luogo in cui riconoscere esperienze di viaggio già prefigurate in vista del proprio inserimento nei cataloghi turistici, un luogo che, essenzialmente come ogni altro, si muove tra la formulazione di immagini semplificate per un’efficace presa sul mercato e la conformazione del locale, del contingente, ad aspettative e aspirazioni del viaggiatore portatore di denaro.
Mutato quindi radicalmente lo scenario, il serbatoio del fotografabile che si offre alla macchina di Eli Dijkers non è più una sconosciuta terra di conquista vergine da portare al centro delle cronache, ma è un luogo còlto, nel momento della massima attenzione internazionale, nella propria resistente marginalità, nella propria indesiderata eccentricità, nella propria profonda perifericità. Ma anche questo senso di irredimibile provincia non è più quello degli anni postbellici: quella Basilicata da esplorare, da cercare, da sorprendere nell’impreparazione non è più un luogo di isolamento ridestato da un torpore atavico, “scoperto dalla modernità”; è piuttosto una periferia diversa come tante e come infinite, restata ai margini di roboanti programmi di sviluppo e centralizzazione degli interessi economici e culturali. Un luogo che ha conosciuto la modernità delle merci, della comunicazione di massa, delle dimensioni desideranti del capitalismo e del consumo, che ha finalmente perso ogni verginità agreste di ascendenza pasoliniana, che elabora decennali complessi di inadeguatezza e che si ritrova a detenere un’alterità di cui spesso mostra di non sapere cosa fare.
La presenza di Eli Dijkers in Basilicata non è stata desiderata o programmata dal fotografo, come sarebbe stato per una città dell’India o della Cina: è un’azione indotta, imprevista, frutto di una commissione e di un accadimento. Ma non per questo non è stata letta come un’occasione, forse determinante per il suo linguaggio. Permane forte il senso di un addentrarsi, di un faticoso procedere verso l’interno, topografico e metaforico. Ma se la mutata condizione generale del contesto storico ha sterilizzato ogni tentazione di carattere antropologico o verso l’ortodossia al genere della fotografia di viaggio (come fu negli anni ’50 – ’80), si può dire che siano decadute anche le possibilità di rivedere i cascami di un reportage di carattere pubblico, di ambizione storicomonumentale, di disvelamento (come è stato per esempio per Dorothea Lange e le sue documentazioni dell’entroterra americano per la Farm security administration).
Il viaggio di Eli Dijkers è un viaggio spiazzato, privo di gerarchie, che non intende inoltrarsi in alcuna categoria dell’esotico, e che prova anzi, proprio attraverso la fotografia, a colmare una distanza senza prefiggersi, finalmente, di colmare l’alterità, di normalizzare e introiettare l’altro. Per questo Tarsus appare come un viaggio né etnografico né topografico; se mai simpatetico: una prova di immersione e connessione che non pone discrimini sull’utilità del dato rinvenuto (non si prefigge di rivelare nozioni su luoghi e popoli lontani) né tantomeno di carattere estetico (non si chiude nella rappresentazione di un registro specifico, magari a uso turistico).
Il viaggio di Dijkers è l’addentrarsi fortuito in una delle tante alterità minime di un mondo globale: il fotografo non è più nelle condizioni di sentire la bruciante estraneità a dei luoghi che la sua società ha “sterilizzato” sul piano della pericolosità degli immaginari. Reagisce quindi con un moto di onestà intellettuale e di consapevolezza della propria collocazione storica quando decide di dismettere, energicamente e decisamente, ogni ricerca di coerenza, di esaustività, di efficienza dell’atlante che ne dovrebbe derivare. È il viaggio di un individuo, ma reclama universalità: non perché le sue fotografie si prestino a diventare organiche a un racconto condivisibile con la propria società sulla base della consumabilità del territorio rappresentato o dell’egemonia degli immaginari richiamati, ma perché il metodo empatico chiede proceduralmente a chi guarda di calarsi nella fatica di avvicinamento a ciò che è fotografato.
Di fronte al flusso delle fotografie di Dijkers non ci si chiede quali elementi siano significativi e funzionali a questo o quel racconto, ma ci si trova di fronte alla riproposizione nell’osservatore di quello stesso lampo che ha generato un’immagine nella mente del fotografo. Si percepisce il disagio, la non-familiarità, la precarietà di un’esperienza di riconnessione con un ambiente, e, per estensione, con il mondo. Una procedura che richiede fatica, lavoro e una certa dose di tenacia a cui il pretesto della fotografia offre un metodo, o quantomeno uno scopo fittizio – cioè fare fotografie – ma il cui vero scopo è il valore di quello sforzo in sé. In questa conquista risiede la gratifica che guida Dijkers nel suo percorso dal mondo scientifico, efficiente, esatto, della propria formazione in ambito farmaceutico, a quello fluido, connettivo, analogico della fotografia.
Si tratta quindi di un viaggio attraverso i generi del fotografico, di dissoluzione delle ragioni interne del reportage classico, in cui la frammentarietà del linguaggio diventa funzionale alla rappresentazione di un’esperienza del paesaggio, e non della sua riduzione a dato da schedare e mettere a capitale. Una continua mutazione di registro che rende partecipe chi guarda dello spiazzamento e delle mille intertestualità interrotte di cui Dijkers sembra essersi servito per immergersi nel contesto. Peculiarità di Tarsus è infatti che nessuna immagine, singolarmente, è in grado di caricarsi del peso di rappresentare l’intero progetto (come sarebbe invece facile fare con il progetto di uno Steve McCurry o di un Robert Capa, o, per tornare alla Basilicata, di un Mario Carbone). Non c’è traccia di emblemi, totem o simboli, né di dichiarazioni, epigrafi, oratorie.
Il tentativo di dedurre concettualità da una cernita dei materiali secondo alcuni criteri di parziale omogeneità resta, in ogni caso, un’operazione capace di fornirci informazioni così come una dissertazione anatomica ci consente di conoscere l’operatività di un organo prescindendo dal senso dell’organismo. Ben più determinante sarebbe riuscire a comprendere che cosa ci cattura, nonostante tutto, in Tarsus: si è preso gioco della naturale attitudine cognitiva alla riduzione dei messaggi e delle categorie, ci ha spiazzato in continuazione nella modulazione dei registri retorici, ha cambiato strategia espressiva ogni qualvolta ha corso il rischio di rendersi evidente, ha evitato accuratamente di strutturare un plot o una tesi. E forse proprio per questa ragione Dijkers riesce, nonostante tutto, a rendere l’enigma di questi luoghi. Che non è più genius loci, come per tutti gli esploratori che lo hanno preceduto nei secoli precedenti, ma è il semplice e insondabile tentativo di un intelletto di trovare spunti episodici per muoversi in una realtà che ha distrutto irrimediabilmente le proprie strutture ordinatrici, rendendoci in cambio la schiacciante sensazione di essere immersi in un ambiente che sfugge ormai, strutturalmente, alle nostre categorie di comprensione.