opera di Marcello Mantegazza

404.02 / Marcello Mantegazza. 

Una specie di verità


Donato Faruolo 
Curatore della mostra 

A un paio d’anni dalla Grande guerra, l’Italia si trova a dover amministrare, logisticamente e simbolicamente, lo stoccaggio di quelle migliaia di cadaveri che erano stati inumati in tutta fretta sui fronti di guerra. Si tratta di un lutto di proporzioni abnormi la cui elaborazione non poteva in alcun modo essere lasciata a celebrazioni particolari o episodiche. Diventerà anzi uno degli atti più decisivi nella formazione dello spirito di appartenenza, nazionale prima e fascista poi. Lo scompenso di una scomparsa, le cui ragioni appaiono tanto più insensate quanto più ci si allontana da quei fronti, induce il Regno d’Italia ad adoperarsi per la costituzione di un intero apparato di formule, motivi e modelli per l’elaborazione di un’epopea nazionale che traduca il dramma dei singoli in una sostenibile dimensione collettiva. Un processo di costruzione di dispositivi politici che a distanza di un secolo appare straordinariamente eloquente, oltre le intenzioni declamate e in modi in gran parte imprevisti.

Per estrema esigenza pubblica, in un frangente in cui l’interesse collettivo è fatto ancora coincidere con una prospettiva di nazione e di potere, ha origine uno degli ultimi episodi in cui l’occidente ha potuto trattare frontalmente e senza complessi il tema della monumentalità, di un linguaggio epigrafico e di una concezione dell’arte pubblica che fosse esemplare e didattica. In luogo di quel sentimento oggi del tutto impraticabile, nell’ostruzione di quel registro assertivo e coagulante, resta un sottile ripiegamento malinconico e il senso dell’impossibilità di assolvere al richiamo di una buona abitudine dal sapore catartico. La funzione del monumentale rimane come la memoria biologica di una prerogativa dell’umano per cui non possono più sussistere organi preposti.

È in questa chiave che convochiamo il lavoro di Marcello Mantegazza per la seconda tappa di 404, Programma per l’arte contemporanea di Porta Cœli Foundation: non un update orientato e ordinato dalle aliene liturgie dell’avvicendamento del nuovo, ma un’occasione per rileggere la pregnanza di un lungo lavoro di studio e ricerca in relazione con un’attualità che ci vede sprovvisti di categorie di elaborazione, nel tentativo di ricucire l’arte del presente alla pubblica percezione e di restituirla alla collettività per il ristoro e la corrosione del dibattito culturale. In un percorso tra opere inedite, storiche e site specific, ritroviamo un apparato coerente e complesso di riflessioni utili alla lettura delle mutazioni – pur necessarie e in parte auspicabili – di uno statuto culturale, che emergono talvolta con furia nelle cronache del contemporaneo e che, ricollocate al termine di questa parabola secolare, promettono di condurci a qualche utile consapevolezza.

Il lavoro di Mantegazza ci ha educato a una sottile e disturbante pulsione alla formulazione di indici, alla classificazione, alla catalogazione, alla tassonomia applicata con ostinazione e pregnanza al tema della morte e a quel risarcimento che l’uomo, tragicamente e provvidenzialmente privo della coscienza di essere sistematicamente destinato allo scacco del tempo, prova a cercare nella storia. Un’operazione di costruzione di memorie, drammaturgie ed epopee in cui il monumentale diventa strumento di perpetuazione, proiezione e pro-gettazione dell’oltre, e che l’artista guarda in un’ottica talvolta di crudele avversazione dell’individuale e del romantico, ma piuttosto di disposizione antropologica e collettiva. Gli strumenti del suo discorso artistico sono quindi tutti quegli apparati positivisti che, nella costruzione di una cultura, l’uomo pone ad argine dell’incerto, a definizione di un dominio, a fatale illusione del compimento di un’aspirazione di indefinito controllo, anche oltre l’estensione della propria stessa finitezza. L’epigrafe e il volume; il testo e il frottage; la quadreria e l’enciclopedia; l’album e l’antologia; lo schedario, la collezione, il repertorio e l’erbario; il gabinetto delle meraviglie, la farmacia e la stanza dei trofei di caccia… Uno scandaglio di quell’etica borghese che ha inventato insieme il museo, il carcere e il manicomio, tutti strumenti di foucaultiana regimentazione delle divergenze dell’umano, siano esse indistintamente immaginative, criminali o patologiche, purché riconosciute come abnormità capaci di questionare la solidità delle normali strutture sociali. Una burocratizzazione dell’insondabile la cui coerenza resta tutta circoscritta entro la condivisione di un codice culturale. In tale senso l’immagine del monumento funebre collettivo evocata in apertura appare particolarmente feconda: rappresenta il momento in cui esplodono le estreme contraddizioni di un processo di normazione e controllo, se applicato alla più estrema delle divergenze, che è la morte. Una morte concepita però nella sua deriva massiva, privata di tragicità individuale. Una morte forzosamente slegata da ragioni biologiche o casuali, programmata e progettata, e infine espropriata perfino del conforto di quel senso di insensatezza, di assenza di fine e di ingiustizia che accompagna l’elaborazione di ogni lutto dalla notte della civiltà.

Sono stato forse sarò stato, 2016, è una piccola lapide di marmo di Carrara su cui è inciso il motto indicato dal titolo e che è sottilmente deposta su un cubo bianco. In questa opera Mantegazza riprende e devia la formula di una certa frequentata modalità del memento mori, come quel «Io fu’ già quel che voi siete, e quel ch’i’ son voi anco sarete» che Masaccio pone in bocca a uno scheletro disteso sotto la sua Trinità, a Santa Maria Novella (1426 – 1428). In Mantegazza la formula si declina però in una modalità narcisistica e egoriferita, non priva di un senso di irrisione e di compassionevole malinconia, in cui il soggetto ipotetico e collettivo si svela nell’ambiguità tra ciò che è stato – un fatto compiuto e irrimediabile, ma privo di forma e di statuto sociale – e ciò che potrà sperare di essere nella costruzione postuma della rimembranza. Tanto è perentoria l’idea di declamare nel marmo, tanto è scandalosa e inopportuna la rivelazione di un segreto sotto gli occhi di tutti, di una verità misterica e ultra-banale al contempo. Assistiamo allo scivolamento nel mondo del manifesto di una rivelazione che non avremmo dovuto e voluto ricevere. Le si contrappone l’omonima opera realizzata con il frottage (lo sfregamento di una grafite su una superficie per repertarne le asperità) del 2020: un sudario, una vera-icon, un’immagine acheropita impegnata a ribadire, certificare, sottolineare, in un gioco di frontalità e riconoscimenti impossibili tra identità coincidenti e contrapposte, nella transustanziazione tra una memoria privata e un’epica pubblica. La lapide è un medium frequente nel lavoro di Mantegazza, e assurge, come in questo caso, a estrema, epurata, clinica esemplificazione di un processo di rappresentazione retorica di una certa realtà che prova a imporsi con fiaccata quanto sfacciata assertività. Vero “marchio” artistico di Mantegazza è Spoiler: you will die®, 2016, un avvertimento che scava nell’atrocità del banale per annunciare ciò che è ovvio ma che continua a coglierci di sorpresa: è l’esercizio di una coscienza molesta e lineare, la cui applicazione è condotta all’estrema conseguenza della sua intollerabilità. Il verbo inglese “to spoil”, nella sua etimologia, è tanto vicino all’idea del “rovinare”, quanto dello “spogliare” (e quindi figurativamente del “rivelare”), quanto ancora dello “spoliare”, ossia “privare con violenza”, originariamente “disarmare un cadavere”. È entrato però nel parlato comune della lingua italiana riferendosi all’atto di far trapelare prematuramente il finale di un film, privando l’altro del piacere di una serena e inconsapevole fruizione. In mostra, una versione della lapide su cubo che trae ragione d’essere da una rete di sue omologhe affisse in diverse forme, anche permanentemente, in vari luoghi d’Italia, tra cui il Museo dell’altro e dell’altrove e il Museo diffuso di Formello (Roma), Villa Lais a Sipicciano e una via pubblica di Acquapendente (Viterbo).

Il testo, nella sua solenne veste epigrafica – si tratti di lastre di pietra così come di frontespizi bibliografici – diventa lo strumento per l’emersione di un impianto retorico – e quindi psicologico – in cui si manifestano le ragioni di un nostro pervasivo e compiaciuto sentimento del controverso. Riletta in una prospettiva che mette allo scoperto la sua aspirazione alla scrittura storica, l’intenzione monumentale diviene al contempo tautologia e paradosso: nella ferma determinazione ad asserire e ribadire non fa altro che esporre la cattiva coscienza di uno stato di vulnerabilità e disarmo. In Cadavre exquis, 2011, Mantegazza percorre ancora una volta una vertigine della lista, composta in questo caso da ventuno frontespizi enucleati da una vecchia antologia letteraria e posti sotto vetro in una scomposta quadreria. In ognuno di essi, come su una lapide funeraria, si declama il nome, la data di nascita e la data di morte di altrettanti autori italiani. Nessuna pulsione alla divergenza – che pertenga all’opera letteraria coinvolta e alla consunzione materiale del singolo foglio – sfugge all’azione di indistinta e inarrestabile sterilizzazione di una registrazione sistematica. Il volume, nel suo raccogliere, censire, rilegare, è esso stesso una manifestazione del monumentale, per il suo carattere perentorio, assertivo, definitivo che contribuisce alla costituzione di un prototipo della custodia del testo entro le pareti invalicabili di una copertina rilegata. Mantegazza profana, devia, distorce anche questa frontiera: in mostra troviamo l’ultimo esemplare dalla serie dei “libri scavati”: Autobiografia di un autore, 2021, è costituita da una coppia di volumi in cui l’artista ha praticato un foro che attraversa perpendicolarmente il volume delle pagine. Dalla copertina in poi, le pagine si piegano e ripiegano su se stesse per lasciare spazio a un piccolo, ossimorico abisso. Deposte sul fondo, individuate nella tessitura del testo stampato sulle pagine in cui questa foga distruttiva trova pace, sono evidenziate, rispettivamente, le parole “nasce” e “muore”. Per un solerte e spietato gioco di esplicitazione, definizione, refertazione, l’intera parabola di un autore è racchiusa nell’atroce banalità del nascere e del morire. Anche il medium del libro è un fatto ricorrente ma multiforme nell’opera di Mantegazza. In Brevi cenni sul vuoto, 2020, l’artista costringe in due cornici l’anatomia di un libro dissezionato, riportato per spirito meta-bibliografico alla paradossalità illeggibile che il fiammingo Cornelis Norbertus Gijsbrechts (1610 ca. – 1675 ca.) adoperava nei suoi accuratissimi trompe l’œil che simulavano in pittura il retro di un dipinto, o alla matematica concettualità di Giulio Paolini, che in Dilemma, 2005, invade un ambiente con tele capovolte, su piedistallo o in teca, rigorosamente prive di contenuto, in un affollamento di variazioni sul tema del museale. In Siamo come i fiori nei libri, 2020, l’artista ricompone le “spoglie” di una serie di fiori esumati dopo essere stati dimenticati tra le pagine di alcuni libri. Otto cornici sono impegnate nell’ostensione di un reperto imbustato ed esibito, accompagnato dalla pagina di un libro – Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e L’infinito di Giacomo Leopardi, Dei Sepolcri di Ugo Foscolo… – in una inestricabile e controversa modalità della citazione, che è impossibile costringere nella planarità di una condiscendenza al patimento del romantico. La biblioteca di Babele, 2021, è invece una bibliotecula evocata dall’allineamento di una serie di piccole lastre di marmo, pietrificazione e sterilizzazione di una collezione bibliografica, tassidermia di una cultura resa inservibile dalla sua monumentalizzazione.

Dopo la Prima guerra mondiale, alla ricerca di quei menzionati dispositivi politici di espropriazione del lutto, nei paesi di provenienza dei caduti si erigono in fretta statue, ossari ed epigrafi in cui si enfatizza lo struggimento della patria-madre per la morte del soldato-figlio, tra cascami di un tardo gusto umbertino e reminiscenze liberty, simboliste o veriste. Successivamente il Fascismo costituirà sui fronti di battaglia enormi sacrari militari di stampo romano e razionalista, talvolta sviluppando linguaggi potenti e avanzati e focalizzando su un accento guerresco in cui la morte, da sacrificio, diventa auspicio, prodromo di gloria, mai occasione di indulgenza al compianto. È il caso del sacrario di Redipuglia, un Golgota di pietra del Carso la cui cima si raggiunge percorrendo gradoni popolati da migliaia di nomi di caduti, oltre che da un’ossessiva, opprimente ed esaltante teoria di archigrafie con la parola “presente” in rilievo. La liturgia degli appelli dei camerati caduti a cui la folla rispondeva «Presente!» – in luogo di chi presente non poteva essere – diviene qui la pietrificazione di quel senso di tautologia e paradosso che alimenta uno degli ultimi atteggiamenti del monumentale italiano ed europeo. In Italia chiamò, 2018, Mantegazza utilizza la tecnica del frottage per appropriarsi di un elenco di caduti dal monumento eretto a Muro Lucano, Potenza. Non più su marmo, ma su carta, rinchiusi in una serie di cornici esposte a decine di chilometri da chi avrebbe potuto personalizzarne i nomi, quella lista (Cardone Antonio fu Vito, Cardone Antonio fu Carmine, Cardone Gerardo fu Antonio, Cardone Giuseppe fu Gerardo…) smette di testimoniare un’atrocità, di portare conforto, di riconoscere identità, per diventare un insignificante mantra di nomi, cognomi e patronimici che si ripetono e ricombinano senza una drammaturgia possibile. Un monumento che smette di essere assertivo per tornare interrogativo, portatore pericoloso di spiazzamento e di dubbio.

Nella formula del sacrario riveduta e corretta dal Fascismo, un’accorta costruzione politica designa nella morte – e non solo nel culto dei morti – qualcosa di necessario e addirittura desiderabile: non accadrà mai più nella cultura occidentale europea di assistere ad atti di così convinta e spudorata cultura del martirio. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, tanto l’enfasi patriottica delle nazioni avanzate ci apparirà posticcia, mistificante e affabulatoria, quanto il terrorismo suicida religioso verrà additato come l’estrema negazione della nostra cultura sociale. La degradazione di questa modalità della partecipazione civile coincide significativamente con la revisione e la dismissione del tema stesso della monumentalità. Per prima, sorge una refrattarietà totalizzante, generalizzata e irrimediabile alla funzione semantica del piedistallo, da cui consegue il fiorire ricorrente e stucchevole di monumenti che provano a calare i personaggi celebrati in una incerta e spesso ridicola promiscuità col reale: D’Annunzio a Trieste, Camilleri ad Agrigento, Bongiorno a Sanremo. Casi che esprimono un rapporto irrisolto e falsamente pacificato tra reale e drammaturgia del monumentale. Non c’è invece artista che, nel frequentare esplicitamente e ad alti livelli le categorie del monumentale nel contemporaneo, abbia osato calarsi nello spazio pubblico senza frapporre tra l’opera e il contingente almeno un velo di ironia o ambiguità: George Segal, Claes Oldenburg, Robert Indiana, Christo e Jeanne-Claude, Marc Quinn, Paul McCarthy, Charles Ray, Maurizio Cattelan, o perfino gli anonimi che a Glasgow, fin dal 1985, pongono ininterrottamente e ripetutamente un cono stradale arancione sulla testa alla scultura del Duca di Wellington (1844) del piemontese Carlo Marochetti. Il 2020 è stato inoltre l’anno in cui la revisione della monumentalistica urbana ha subito una vigorosa impennata: a partire dal movimento Black lives matter, una compagine di istanze progressiste ha inteso “monumentalizzare” – sempre per paradosso e tautologia – atti di rimozione o oltraggio a una serie di statue ritenute non più in grado di esprimere valori partecipati. Che si possa simpatizzare o meno con questa metodologia della revisione e della negoziazione dello spazio pubblico, a partire da Edward Colston a Bristol, per poi passare ai tanti Cristoforo Colombo in giro per il mondo, al Winston Churchill di Westminster o all’Indro Montanelli di Milano, ciò che sembra emergere è un dialogo impossibile tra asserzioni perentorie che negano ogni vibrazione possibile tra l’eroico e il lestofante, e ogni vibrazione tra la celebrazione tout court e la mera testimonianza. In un’epoca che ha sterilizzato la funzione monumentale dei suoi monumenti riducendoli all’invisibilità, l’inasprimento della contesa sulla loro legittimità spinge talvolta alla riabilitazione di una loro funzione assertiva, seppur talvolta capovolgendola. In senzatitolo, 2020, opera site specific per Venosa, Marcello Mantegazza rilegge la diffusissima pratica nella città di sezionamento e ricollocazione delle rovine archeologiche romane in nuove costruzioni. Tanto nel complesso monumentale dell’Incompiuta quanto nella comune edilizia residenziale, il frammento perde la possibilità di articolare un proprio comunicato, viene utilizzato come citazione e referenza di un prestigio storico, ma spossessato di qualsiasi possibilità declamatoria, tra monumentale e antimonumentale. Mantegazza riporta a Venosa una serie di frammenti di frottage ubiqui e diffusi per poi collocarli e rimescolarli sulle pareti della galleria, in una quadreria polverizzata e disidentificata che afferma e nega, cita e contraddice, celebra e condanna. In un contesto culturale in cui i motori di ricerca pongono la connessione tra significanti e significati alla mercé della negoziazione quantitativa del mercato delle relazioni, l’opera sembra parlare di come le immagini si siano emancipate dai propri referenti, in una società che si è sbarazzata del valore di didascalie e bibliografie, in un regime di citabilità ad libitum.

Questo continuo ricorso al capovolgimento della declamazione, alla rivelazione del paradosso in ciò che nel monumentale è tautologico, si ripercuote in tutta una serie di opere che sembrano contabilizzare, incastrare, censire una serie di articolabilità del reale, per poi implodere nella cristallina evanescenza del messaggio, nella pura manifestazione del lapalissiano. Un’operazione tanto più enigmatica quanto più l’opera si priva di un portato informativo, in antitesi con la loquela del linguaggio epigrafico la cui solennità è totalmente sovvertita. Le opere, più che lampadine accese, punti di approdo e asserzioni di un discorso per tesi e argomenti, appaiono conduttori di elettricità, pezzi di una processualità cognitiva. In Digitale, 2021, dieci lastre di marmo riportano ognuna la cifra di un’ideale conta sulla punta delle dita: uno, due, tre… Sulla superficie l’artista incide a mano la traccia di una cifra bodoniana standardizzata. In Digitus, 2020, la stessa conta passa sulle impronte dei polpastrelli delle dita di una mano, nominati in latino dito per dito, refertati e numerati su fogli di carta affissi a tavolette di legno. Il caso Dürer, 2021, riporta il quadrato magico della celebre incisione Melancholia I (1514) di Albrecht Dürer, emblema delle virtù intellettuali e di una prerogativa umana della riflessione sull’esistenza che, attraverso la possibilità della conoscenza, induce anche a meccanismi introiettivi ed esistenziali: una matrice in cui una serie di numeri sono disposti in modo tale da offrire sempre la stessa somma operando per colonne, per righe o in diagonale, nell’estrema coerenza e nell’estrema gratuità dell’operazione, disegna un sistema chiuso a coerenza infinita ma privo di rivelazioni. In Fronte / Retro, 2020, una lastra di marmo posta in verticale su un piedistallo indica con una vacua oratoria il proprio fronte e il proprio retro con apposite, inequivocabili iscrizioni. Sono tutte operazioni di hacking della semantica, indagini di una possibile tautologia perfetta in cui ci illudiamo che nel rapporto tra una fontana e un urinale non possano esistere aree grigie, non presidiate, non sviscerate della cognizione e del linguaggio. Un’inequivocabilità spinta a livello tale da far emergere, per contrappasso, la matrice arbitraria dei segni di cui la semiotica si avvale, e la matrice relativa del valore di un iconema.

Pulvis et umbra, 2021, è l’opera che idealmente chiude il percorso di questa mostra. Da tempi non sospetti nei progetti di Marcello Mantegazza, riporta un verso tratto dalle Odi oraziane (IV, 7) e, in ottemperanza a questo enigma cognitivo delle aderenze impossibili, si realizza e si espone per la prima volta qui a Venosa, giusto alle spalle del monumento che celebra il poeta nella sua città natale. Mantegazza affianca due grandi lapidi con iscrizioni in carattere imperiale: una, bianca, per la parola “pulvis”; l’altra, nera, per la parola “umbra”. Un testo, quello qui evocato, la cui sensibilità ci appare attuale e dolente, nella sua riflessione sulla precarietà dei tempi, lì dove la linea della storia sembra collassare, contraddire ciò che è inciso più in fondo nella nostra coscienza e in ciò che siamo convinti di sapere a proposito della vita: «[…] celeres reparant caelestia lunæ: nos, ubi decidimus / […] pulvis et umbra sumus.», ossia «[…] le lune aggiustano i danni del cielo: noi, una volta morti, […] siamo polvere e ombra». Alla base del citato monumento a Quinto Orazio Flacco (Achille D’Orsi, 1898), a due passi dalla sede venosina di Porta Cœli Foundation, è riportata in un bellissimo carattere lapidario un altro verso delle Odi: «Exegi monumentum ære perennius», ossia «Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo». La gestazione di questa mostra comincia qui, nella percezione della tautologia e del paradosso che è alla base della concezione del monumentale nel contemporaneo. Il monumento a Orazio, nell’intenzione di cercare la massima incontrovertibilità del solenne, costituisce una scultura in bronzo a chi ha celebrato attraverso la poesia, attraverso l’inconsistenza dell’atto dello scrivere, la cultura come facoltà dell’umano esplicitamente contrapposta alla muscolarità della monumentalizzazione metallica. Sarà quindi il bronzo stesso a esporre, paradossalmente, cinicamente e involontariamente, l’effigie del poeta alle intemperie e alla «fuga delle stagioni» che credevamo eluse per sempre. Orazio è orgoglioso di aver trovato l’emancipazione nella sua attività poetica. Il suo Forse sarò stato, per citare l’opera di Mantegazza che ha aperto questa indagine, è un atto di fiducia nella capacità delle opere letterarie di durare in una dimensione culturale che non ha bisogno di affidarsi al bronzo e al monumentale per elaborare un rapporto sostenibile con lo scorrere del tempo.

Questo percorso nel lavoro di Marcello Mantegazza si dispiega come un testo composto per paratassi, fatto di aforismi in cui il valore artistico è annidato nell’ipotesi paradossale e distopica di una retorica che non lascia zone d’ombra. Una specie di verità prova a fissare lo sguardo esattamente in quella sottile frattura della disidentificazione che Mantegazza prova ad allestire nella planarità di solenni dispositivi di identificazione culturale, colti in fallo mentre fingono l’innocenza, l’irrilevanza, la più scivolosa delle levigatezze incontrovertibili. Il sogno e l’incubo borghese, ottocentesco, positivista di un mondo impagliato e ricomposto nella chiarezza intellettuale della teca, nel tentativo di sterilizzare l’incognito, lo potenzia e lo rende angosciante. Al tronfio declamante del monumentale, si contrappone una sorta di nichilismo creativo di ispirazione artaudiana, l’ipotesi di un grado zero, di un vettore nullo che è la risultante di forze contrapposte e apparenti, di un vuoto che è la sommatoria tra la vacuità dei pieni.